Soprattutto in periodi di ristrettezza economica, una persona decide di effettuare un acquisto tendenzialmente perché deve risolvere un problema o perché vuole raggiungere un qualche obiettivo per lei importante. In altre parole, l’acquisto deve svolgere una funzione positiva sul suo orizzonte psicologico, o per lo meno deve generare questa percezione 😉
Questa dinamica ha luogo tanto con prodotti, quanto con servizi. Ed anche i servizi psicologici devono quindi misurarsi con l’utilità percepita dal cliente. Solitamente si possono individuare tre situazioni in cui l’utente ha una migliore predisposizione all’acquisto:
- il servizio è in grado di risolvere un problema, la cui risoluzione viene considerata importante per l’utente,
- il servizio è in grado di generare un vantaggio/beneficio, ovvero permette di raggiungere un obiettivo di sviluppo che l’utente desidera raggiungere,
- il servizio permette di mantenere e/o consolidare una situazione positiva esistente, considerata come necessaria e/o desiderabile dall’utente.
Se ci pensi, anche noi – nel nostro privato – effettuiamo scelte di acquisto per una o più di queste ragioni e secondo un processo più o meno lineare:
- abbiamo un problema da risolvere o un traguardo da raggiungere,
- ci attiviamo per cercare informazioni utili a generare la soluzione o a individuare risorse risolutrici,
- effettuiamo un processo di selezione delle opzioni individuate in base all’utilità percepita, ed ovviamente a nostri gusti, stili ed elementi culturali.
Allo stesso modo, il nostro utente target farà con noi, con i nostri servizi psicologici. Ma ciò ha una ricaduta importante sul come ed a chi ci rivolgiamo nella veste di Psicologi.
Difficilmente un servizio psicologico, genericamente definito, è “utile per tutti”! Rivolgersi a tutti genera il rischio di non rivolgersi efficacemente a nessuno.
Ragionare in ottica di “utilità percepita dall’utente” significa ri-orientare la nostra offerta alle domande dell’utente, significa rimanere sul processo consulenziale, significa non comunicarsi in modo autoreferenziale con modelli pre-disposti e pre-calati dall’alto.
In altri termini, lavorare su nicchie di utenza. Nell’articolo “Trova la tua folla affamata” proponevo un utile e veloce esercizio per aiutare lo psicologo a capire la domanda a cui risponde, ovvero il problema che è in grado di risolvere… ovvero la nicchia a cui potrebbe piè efficacemente rivolgersi. Prova a farlo 😀
Nelle mie attività di consulenza e docenza sul Marketing dello Psicologo trovo questo lavoro puntualmente foriero di nuove prospettive d’azione per il collega, in particolar modo quando mi trovo di fronte a:
- studenti di Psicologia, neo-laureati neo-abilitati che si immaginano futuri professionisti sulla base di modelli autoreferenziali e pre-impostati, passati dall’Università, ma anche
- Psicologi e Psicoterapeuti per lo più abituati a declinarsi sul versante del disagio/disturbo, quindi in situazioni già socialmente conclamate e riconosciute, dove quindi potersi attivare secondo canovacci – script – pre-definiti, ma anche rassicuranti in quanto conosciuti e padroneggiati.
Lo psicologo che lavora in ottica di nicchia è lo psicologo cosciente del proprio profilo di competenza, un problem solver, un consulente di processo orientato al cliente, come ben esemplifico (o almeno spero 😛 ) nell’articolo “Da ruoli e contesti a competenze di processo e progettualità“. Idealmente il processo è:
- definisci la tua offerta di valore e gli elementi che la distinguono
- individua a chi intendi rivolgerti, ovvero quale utenza troverà utile e preziosa la tua offerta
- aggancia, ascolta e conversa con queste utenze, tramite sito web, social media, email, content marketing, eventi, ecc…
- converti i contatti in clienti ed alimenta il circuito.
Questo tipo di lavoro ti restituirà un action plan mirato ed operativo con cui ri-definire la tua offerta di servizio, calibrando al meglio le azioni di comunicazione e promozione presso le tue utenze nicchia.
Buon lavoro,
Nicola Piccinini