Vi propongo un sondaggio, del tutto esplorativo e senza pretese, sulla corrispondenza tra la domanda di psicologia da parte dei cittadini e la risposta di servizio da parte degli psicologi.
Il sondaggio prende spunto da una ricerca sulla domanda ed offerta nel settore della Psicologia Clinica e Psicoterapia che il CNOP (Consiglio Nazionale Ordine Psicologi) commissionò nel 2008 al prof. Salvini della Facoltà di Psicologia di Padova. La ricerca coinvolse ben 2856 psicologi/psicoterapeuti su tutto il territorio nazionale, con prevalenza al centro. Una ricerca quindi sufficientemente rappresentativa della popolazione degli psicologi italiani ed anche attuale.
Nella ricerca si osserva che il cambiamento maggiormente riferito dagli psicologi clinici / psicoterapeuti (segnalato da circa un terzo) è la richiesta sempre più frequente di trattamenti caratterizzati da una maggiore urgenza e da tempi più brevi; e si afferma che questo fenomeno viene giudicato negativamente tanto che un quinto dei colleghi “accusa” il cliente di “non volersi impegnare” o di “non voler crescere”, un terzo traduce la richiesta di percorso breve come “aspettativa magica” e qualcuno afferma addirittura “… in pratica ci chiedono di essere truffati”.
Si segnalano inoltre con frequenza sempre maggiore richieste orientate al “benessere”, al “miglioramento” e al “cambiamento” piuttosto che alla “cura”.
Questi dati, in particolare sono già emersi in un’altra ricerca, commissionata dall’Ordine Psicologi Toscana al Prof. Carli della Facoltà di Psicologia di Roma. In pratica evidenziavano quanto grande fosse la domanda di psicologia da parte dei cittadini toscani e quanto fosse focalizzata sulla psicoterapia e la cura la risposta dei colleghi toscani.
Tornando quindi alla ricerca, si ipotizza che questa delusione possa essere attribuita al fatto che da una parte gli psicologi intervistati fanno riferimento ad un modello di psicoterapia che configura l’intervento psicologico esclusivamente come di lungo periodo, dall’altra si presume che gli psicologi clinici terapeuti si sentano inibiti a intervenire su problemi che escono dal loro campo di pertinenza e di applicazione, così come è stato ritagliato dal modello diagnostico terapeutico cui sono affiliati, che spesso prescrive e limita l’ambito lavorativo assimilandolo esclusivamente ad una pratica sanitaria.
Il risultato di questa potenziale auto-limitazione è – come effettivamente sta accadendo – quello di lasciare ad altre categorie professionali la possibilità d’inserirsi nella nuova domanda individuale e collettiva di benessere, di salute, di emancipazione, di prevenzione e di integrazione sociale.
Per intenderci, agli intervistati era stato chiesto, ad esempio, la disponibilità ad affrontare un problema di obesità infantile e molti si sono dichiarati impreparati vedendo l’obesità infantile come un disturbo di personalità o un problema psico-affettivo o medico, e non considerandolo invece il risultato di un comportamento alimentare quindi gestibile in ottica di promozione salute e benessere.
Ti invito quindi a riflettere sul tuo approccio, sulle tue modalità, sui tuoi riscontri professionali ed a compilare poi il sondaggio indicando il tuo possibile livello di auto-limitazione, così come evidenziato dalla ricerca. Ovviamente per ulteriori riflessioni a riguardo, puoi lasciare un commento 😀
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Buona vita
20 risposte su “Sondaggio: la domanda di Psicologia muta, e la risposta degli psicologi?”
Io sono un’anlista, ma per rispondere alle esigenze dell’utenza mi sono specializzata in Psicoterapia Breve Focale Psicoanalitica che dura 1 anno ed è molto effice. E’ anche vero che non esco dal modello psicoanalitico Freudiano che ho appreso e che considero tutte le altre Terapie molto al di sotto dell’efficacia di quella analitica, specie per la lunga preparazione di noi analisti
Dr. Gianna Porri
Scusa collega, ma non è privo di senso, certo che una cura deve portare al benessere, ma noi curanti di solito partiamo dal concetto di malattia da curare per ottenere un benessere e secondo me ha ragione Nicola, ci facciamo fregare da tutti quelli che non curano, ma danno consigli, sostegno, insomma, aria fritta, ma il paziente non si sente nè malato nè curato. Io sono una vecchia analista, prima da noi veniva gente che stava relativamente bene e non riusciva a godersi la vita, adesso vanno dal conselor o peggio da Roberto Re, basta che non siano obbligati a pensare e noi questa fascia di utenti, sempre più numerosa ce la siamo fatta fregare!
Dr. Gianna Porri
Sono cognitivista-comportamentale e sono anche psicoterapeuta ericksoniana, la terapia breve focalizzata sul cambiamento inteso al miglioramento della qualità della vita personale, al benessere e alla promozione del benessere sono al centro di qualsiasi intervento.
Non riesco a comprendere come si possa lavorare con efficacia in altro modo e come questo non possa essere definito “cura”. Non capisco cosa intendi tu per cura nicola.
Per tanto non partecipo al sondaggio, lo trovo privo di senso, senza offesa:-))
penso che lo noi psicologi abbiamo di fronte l’unicità e dunque la complessità dell’essere umano, per cui credo sia importante riflettere sull’approccio utilizzato nei confronti del paziente e ogni tanto mettersi anche in discussione.
flo
Nessuna offesa ovviamente ;o)
“Cura, guarigione, solitamente segue una diagnosi e si occupa del trattamento di malattie” così riporta Wikipedia.
Sempre più persone non hanno malattie, non devono guarire, ma sentono l’esigenza di gestire processi di crescita, di problem solving, di convivenza, di relazione, ecc…
Se tu credi di poter racchiudere tutti questi universi nella “cura” allora si è risolto il problema ;o)
Personalmente, ma ben prima di me colleghi molto più illustri e ferrati, sottolineano invece che approcciare in termini di “cura” piuttosto che di “promozione” muove leve differenti ed intercetta domande differenti.
Dal tuo vertice non solo non ha senso il sondaggio, ma l’intera ricerca ;o)
…trovo molto interessante la discussione, apre a migliaia di problematiche che emergono dalla complessità del rapporto tra il soggetto (professionista o utente) e il contesto.
Che dire…”pare” che in questa società (in Italia?) siamo abbastanza d’accordo (ma neanche tanto ora che ci penso) che con parole diverse si prefigurino modalità di rapporto determinate (medico-cura sembra accettato da anni, ma già su “psichiatra” e “psicologo” come abbiamo visto lo siamo un pò meno, e su “cura”-“promozione del benessere”-“cambiamento sistemico” i confini cominciano ancora ad essere meno chiari).
Insomma, per farla breve, l’immagine che ho avuto leggendo questi post è questa: facendo un salto di più di 100 anni indietro nel tempo ho visto persone che si tenevano per mano intorno ad una vasca d’acqua (http://it.wikipedia.org/wiki/Franz_Mesmer), poi ho cercato di immaginare come ragioneremo fra 100 anni.
Non lo so se saremo ancora d’accordo sulle distinzioni tra figure diverse: chissà, magari sparirà lo psicologo, il medico, lo psichiatra, cosi come è sparito il “mesmerista”.
Certo è che siamo responsabili di attuare un cambiamento culturale.
E tornando al qui e ora, è opportuno capire chi siamo noi “psicologi”, e possibilmente entrare in un contatto più profondo con la realtà, e possibilmente cambiarla, se serve.
Cura, intervento, miglioramento della qualità della vita, del benessere, ricerca della felicità, sono tutti aspetti che riguardano la psiche umana, in termini sia di patologia che normalità. Prima di poter parlare di un tipo d’intervento rispetto ad un altro, è importante e fa parte della responsabilità professionale di un terapeuta, fare una DIAGNOSI, comprendere e valutare di cosa effettivamente ha bisogno un paziente, e come ha detto qualcuno essere anche un pò flessibili, conservando il proprio approccio. Ritengo la ricerca molto importante ai fini della comprosensione della nostra professione perchè se non riusciamo a comprenderla tra noi difficilmente la capiranno gli altri.
Ho apprezzato la ricerca, però da studente di psicologia mi chiedo spesso quale sia il punto. Voglio dire, capisco l’esigenza di affrontare le situazioni problematiche “presto e bene”, ovvero la società ci chiede più efficacia in meno tempo. Ma questo lo chiede ad ogni professione esistente.
Quello che però mi chiedo è dove sia più opportuno lavorare. Ad esempio nel disturbo alimentare di cui sopra è più efficace lavorare sull’educazione al cibo oppure considerarlo come disturbo psico-affettivo, quindi sintomo di una situazione più complessa? Io credo che un professionista serio non debba escludere entrambe le ipotesi, a prescindere dalla scuola di appartenenza. Io ancora non ne ho scelta una, ma credo che, come sempre, la valutazione diagnostica sia sempre e comunque indispensabile per sapere che strada percorrere. Quindi collaborare col paziente per trovare una direzione comune. Trascurare una di queste possibilità in fase di valutazione è, secondo me, una scelta a rischio di negligenza. Spesso ogni psicoterapeuta dovrebbe mettere da parte l’arroganza di “avere la strada giusta” per inviare il proprio paziente al professionista competente. In ogni caso, credo che sia la relazione paziente-terapeuta a portare alla “guarigione”. Credo che sia importante che anche un trattamento più “tradizionale” possa integrare un’educazione “tecnico-pratica” del paziente.
Per quanto riguarda il ricorso a counselor o life coach vari, non credo che ci siamo “fatti fregare” la clientela. Queste categorie danno “soluzioni e consigli”, la psicoterapia porta a sviluppare l’autocoscienza, e sappiamo bene che “soluzioni e consigli” non vanno nella stessa direzione. Quindi preferisco perdere un cliente che lavorare in una modalità di cui non condivido principi e metodi.
Fabrizio Mecca
ummm…auto-limitazioni sembra il concetto e l’obiettivo della ricerca, quindi, fammi capire, perchè il sondaggio è auto-limitante già da sè. Io sono psicologo vecchio ordinamento quindi psicologo del lavoro e delle organizzazioni. Come faccio a fare il sondaggio? Però posso fartelo notare, anche se NON capisco, perchè abbiamo fatto gli stessi esami…QUINDI o c’è un problema di comunicazione dei limiti del sondaggio o il sondaggio è limitante/tarato per i clinici. QUINDI siamo di nuovo ad uno sguardo troppo stereotipato. Perchè ci sono più clinici che si occupano di selezione del personale che di altro o di cura. O fanno entrambe.
anyway
non un passo indietro, ciao
effettivamente, FLAVIO, si parla di “domanda dei cittadini”, e non di ORGANIZZAZIONI… si prende spunto da una ricerca su colleghi clinici e/o psicoterapeuti, e non psicologi del lavoro… si parla di servizi consulenziali rivolti alla persona e non di selezione del personale (seppur svolta da clinici)…
effettivamente davo per scontato che ciò fosse chiaro e non ho inserito insegne luminose per indicare a chiare lettere che lo spunto è riferito a quei colleghi che offrono o intendono offrire servizi di stampo clinico ;o)
in tal senso non vedo alcuno sguardo stereotipato, ma solo un post rivolto ad un segmento specifico di colleghi che si occupa di offrire un ambito di servizi altrettanto specifico tra i tanti possibili dell’universo PSICOLOGIA…
anyway
sempre un passo avanti, ciuz :-PP
Attraverso più di un decennio di lavoro come consulente scolastico per famiglie e insegnanti ho creato uno strumento di intervento integrato capace di rispondere alla più vasta gamma di problematiche poste dalle persone che hanno chiesto il mio aiuto. Penso che non esistano attualmente approcci altrettanto duttili ed efficaci, perlomeno in Italia, ad eccezione di quello che Alfredo Canevaro ha sviluppato in collaborazione con la scuola Mara Selvini Palazzoli, e a cui il mio approccio somiglia molto (ma a cui sono arrivato in maniara indipendente). Rimando, per chi ne volesse sapere di più, al suo libro ‘quando volano i cormorani’ o al sito della scuola Mara Selvini di Milano.
un saluto a tutti,
marco
NOI PSICOLOGI CURIAMO …LA TUA SALUTE!
Complimenti. Questo è il primo sito in cui ho trovato un commento/riferimento alle pochissime ricerche sul mercato fatte dagli ordini (in questo caso quello nazionale).
La prospettiva del cliente non viene, purtroppo, presa in debita considerazione anche se poi è lui che paga. Con insoddisfazione e soldi. E lo psicologo con un calo della domanda.
L’ordine degli psicologi della toscana ha fatto un’altra ricerca (è del 2004 ma a mio parere ancora validissima) in cui si cercava di proporre un cambiamento di prospettiva da parte dello psicologo. Veniva introdotto il terzo cliente. Una persona va dallo psicologo perchè cerca un aiuto per soddisfare dei desideri (attenuazione stress, problemi relazionali carenti, etc). L’attuazione di questi desideri avviene nel “contesto”. Il contesto rappresenta il campo in cui verrà misurata l’efficacia del lavoro dello psicologo. Con un esempio: io non mi sento soddisfatto dalla mia vita relazionale e decido di consultarmi con uno psicologo. Io sarò soddisfatto se dopo un periodo breve vedrò le mie relazioni sociali migliorare. Il terzo cliente è il mio contesto relazionale nella società.
Quando qualcuno chiede un consulto, si è realmente interessati a quelli che sono i suoi obiettivi? Formalizzandoli in modo che poi il cliente possa “misurare” se sono stati raggiunti.
Se si, come potremo spiegare il fatto che molte persone non sono mai state da uno psicologo? Non percepiscono il valore dello psicologo e del suo intervento?
Quando si decide di andare da uno psicologo la situazione è diventata ingestibile e l’intervento è prettamente psicoterapeutico?
PS: io non sono uno psicologo. Mi sto interessando al mercato della domanda di psicologia perchè credo che abbia ampie possibilità di crescita e sviluppo.
saluti
Salvatore
Sul ponte di comando c’è una e una sola persona, ed è il cliente. E ha il potere di licenziare chiunque semplicemente andando a spendere i suoi soldi altrove.
Sam Walton
Ciao Salvatore, rispondo al tuo commento che condivido nell’idea di centrare il lavoro sul cliente e sul risultato. Quello che però non mi piace è la mercificazione del lavoro dello psicologo. In molti casi non si va dallo psicologo per mancanza di informazione. La maggior parte delle persone con cui ho avuto occasione di parlare (dato quindi non statisticamente attendibile) è “preoccupata” del fatto di “non sapere cosa dire”, molti non saprebbero come lo psicologo potrebbe aiutarli. Questa secondo me è “semplicemente” mancanza di informazioni in merito. Penso che sia anche parzialmente colpa di colleghi psicologi che non amano parlare chiaramente e apertamente di cosa significa rivolgersi ad uno psicologo, mantenendo una cortina di fumo a mio avviso inutile e controproducente. Dalla nostra abbiamo almeno il fatto che la legislazione italiana è un po’ più restrittiva di quella francese in merito (in Francia possono improvvisarsi terapeuti quasi cani e porci – per fare una semplificazione). Certo, qui da noi non è roseo e c’è ancora molto da lavorare.
Però non condivido la citazione di Walton: l’obiettivo dello psicologo non è (o almeno non dovrebbe essere) tenersi il paziente come distributore di denaro e quindi coccolarselo e magari non portare avanti una terapia che sia davvero efficace. Alcuni professionisti lo fanno, ma è tutt’altro che etico e una situazione del genere, se documentata in sede di giudizio porta a sanzioni. Se poi invece ci riferiamo ai costi di consulenze e psicoterapie, allora è un altro paio di maniche, fermo restando che il compenso non solo è dovuto al professionista che lavora, ma viene regolato in base allo status del cliente, alla prestazione richiesta e ad altre variabili che vengono apertamente affrontate col cliente nella pianificazione del lavoro.
Non si tratta a mio avviso di “vendere bene il prodotto”, ma di trovare delle linee guida che permettano alla nostra professione di crescere e di aiutare il cliente a raggiungere il miglioramento dello stile di vita (l’obiettivo ovviamente varia a seconda dei casi).
Fabrizio Mecca
Ciao Fabrizio,
inizio scusandomi per la citazione di Walton. Non sono riuscito a spiegarmi bene e forse l’ho inserita senza spiegare cosa intendessi.
Tu dici giustamente, e preferisco i dati reali che le statistiche, che ti è capitato di parlare con persone che
“sono “preoccupate” del fatto di “non sapere cosa dire”, molti non saprebbero come lo psicologo potrebbe aiutarli.”
C’è poca informazione sul lavoro svolto dallo psicologo. E’ vero!
La domanda che io mi faccio è la seguente: cosa spinge una persona a rivolgersi ad uno psicologo?
La voglia di cambiamento, di miglioramento della qualità di vità (come dici tu alla fine) o semplicemente la voglia di confrontarsi su una situazione di impasse che non riesce a superare da sola (divorzio? Lutto? Lavoro? etc etc)?
Ora mi chiedo, una tale persona che non riconoscerà mai di avere dei “problemi” (passami il termine) a chi si rivolgerà? Anche perchè ricercando il “su cosa agisco” nei vari volantini di studi di psicologi la cornice o meglio l’accento è sempre posto su carenze, disturbi e quindi su depressione, stati d’ansia, fobie varie etc.
Mi piacerebbe trovare un frame positivo dove l’accento e l’intervento è posto sul miglioramento, sul raggiungimento di obiettivi, sul benessere, sulla capacità di superare i problemi quotidiani. Questo frame potrebber stimolare il mio interesse in quanto più vicino a quello che voglio ottenere.
E’ in questo contesto che secondo me va letta la frase di Walton. Per far in modo che il cliente percepisca il valore del servizio che gli viene offerto, deve ritrovarsi negli obiettivi pubblicizzati. E’ un pò difficile da spiegare, facciamo un esempio.
Se io ho un figlio che trascura la scuola, non è sicuro sulla strada da intraprendere, è timido e non ha una vita sociale soddisfacente, cosa posso fare? Mi armo di buon senso e cerco di capire se posso in qualche modo aiutarlo. Ma lui non si “apre” ed erige un muro di difesa. Mi serve un aiuto esterno!
Cerco qualcuno che curi la depressione?
Cerco qualcuno che curi disturbi di ansia?
Chi cerco?
So che la psicologia lavora sul potenziamento, sulla ricerca di risorse …se continuo la finisco da Roberto Re. Perchè se cerco lo psicologo “giusto” per mio figlio e per quello che io ritengo sia più opportuno per lui, mi spavento. Provo un senso di rifiuto nel voler accettare che lui sia “malato”. Sta solo affrontando un momento particolare della sua vita e non voglio pensare che sia malato per questo.
La cornice su cui basare il servizio offerto dovrebbe essere più positiva, “leggera”, volta al miglioramento e non alla cura di un disturbo per poi arrivare al miglioramento della qualità della propria vita.
Pensiamo al cliente. Che tipo di bisogno in senso lato potrebbe portarlo dallo psicologo?
Perchè partendo dalla cornice malattia/disturbo le persone non identificandosi nel ruolo di “malato” rifiutano il servizio.
Possiamo “ristrutturare” il modo in cui viene offerto il servizio spostando l’accento sul suo bisogno percepito in modo da portarlo a rivolgersi dallo psicologo anzichè rifiutarlo non sentendosi malato?
Ciao Salvatore,
mi pare di capire che ci siano dei problemi con la parola “malato”. Tanto per cominciare, un adolescente come l’hai descritto tu non è malato. E’ un adolescente con problemi comuni a molti altri adolescenti. E’ giusto che non si senta malato e che la famiglia non lo prenda come malato. Difficoltà sociali in adolescenza sono piuttosto diffuse, e nella maggior parte dei casi vengono superate nella crescita. Ovviamente una famiglia presente non invasiva è assolutamente necessaria, così come le relazioni tra pari. Il punto è proprio questo: il rivolgersi allo psicologo (o allo psicoterapeuta) è ancora fortemente identificato come ammettere di essere malati (di mente). Ebbene, nella grande maggioranza di casi non è così. Per questo io parlo di “miglioramento della qualità della vita”, un concetto generale ma fortemente pregnante, centrato sul cliente (malato o non malato). E’ un concetto che prescinde dalla condizione di malattia o sanità. Riguarda tutti, il malato e il sano, per ognuno dei quali esistono obiettivi, metodi e percorsi decisamente e necessariamente diversi. Siamo tutti d’accordo, mi pare di capire, che l’essere centrati sul soggetto è il punto focale.
Condivido anche la tua idea di “pubblicizzare” il perché rivolgersi ad uno psicologo e ritengo che uno dei primi punti da mettere in chiaro sia eliminare il parallelo cliente=malato. Su questo non vedo altra strada che la trasparenza e il dialogo aperto con le persone, non certo di “andarle a cercare”. Perché se penso che tutti dovrebbero poter consultare uno psicologo, nessuno DEVE consultarlo. Io posso proporre un mio servizio alla comunità, ma non devo somministrarlo a tutti i costi. Salvo casi di conclamato rischio per se o per terzi, l’individuo non deve sentirsi tenuto a rivolgersi allo psicologo.
Ma forse sto solo ribadendo in lingue diverse lo stesso concetto.
Informazione e apertura. Disponibilità, con una struttura chiara ma elastica.
Secondo me sono principi a cui la nostra professione non può rinunciare.
Io non voglio dire che lo psicologo debba diventare un mercenario, procacciatore di affari.
Credo che la psicologia in se sia un scienza bellissima, ma non sono mai stato da uno psicologo. Mi affascina e mi spaventa allo stesso tempo. Perchè?
Per via di quelle associazioni mentali che la parola psicologo si porta dietro. Errate certo ma ci sono. In questo non vedrei nulla di male nel cercare di riposizionare la figura dello psicologo in un contesto diverso. Nel dare maggior spessore ai lati positivi offerti.
Io la vedo così anche perchè tu puoi essere bravissimo, ma ti serve una buona occasione per dimostrarlo e oggi puù che mai queste occasione bisogna andare a crearsele. Non imbrogliando ma comunicando con i clienti nella loro stetta lingua.
Credo che bisogna un pò intenderci sulla parola Psicologo, perchè non è sinonimo di Psicoterapeuta, anche quelli che fanno correre i topini nei labirinti sono Psicologi, ma sperimentali, come quelli che si occupano del benessere di un’azienda sono Psicologi, ma del lavoro, poi ci sono gli Psicologi forensi e così via. Se si parla di Psicoterapeuta a me non capita più persone che vengono per conoscersi, fare un viaggio in se stessi o migliorare la loro qualità di vita. Ritengo che in Italia non ci sia una cultura Psicologica e da me almeno, arrivano a pezzi, quando hanno provato di tutto e prima di andare a Lourdes! Magari vanno dal Conselor o dal Coack, ma non vedono lo Psicologo come possibile miglioramento della qualità di vita, lo vedono strettamente legato alla malattia e dal medico si va quando si sta proprio male e sono falliti i rimedi degli amici, delle varie erbe ecc… Questo è ciò che traggo dai miei 25 anni di esperienze di tutti i tipi
Gianna Porri
Psicoanalista
Ciao Gianna,
sono d’accordo con te, ribadisco che a mio avviso, quello che manca è la chiarezza, la trasparenza e la diffusione di informazione. Se nessuno sa che per svitare una vite ci vuole un cacciavite nessuno lo userà.
Secondo me è importante trovare delle modalità, delle forme, per diffondere questa cultura della salute. Perché volendo fare una generalizzazione, qualunque sia il desiderio della persona, sempre di “salute” (in senso stretto e in senso lato) si tratta. E la “salute” non è solamente l’obiettivo del malato.
Ciao Fabrizio,
in effetti qui manca completamente la cultura dello Psicologo come aiuto per situazioni problematixche, mentre in USA già 30 anni fa ogni manager aveva il suo analista personale e chi non lo aveva non era considerato importante, insomma era uno status simbol, oggi invece in Italia c’è chi ha il personal trainer, ma di Psicologo non se ne parla, anzi se uno ci va se ne guatrda bene dal dirlo….
Gianna Porri