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Psicologi & Società

Quando le parole dell’assistenza fanno male

Sono seduta con Gianluca, è la fine dell’estate e persino questo striminzito giardinetto di periferia romana sembra ridente. Gianluca è felice di rivedermi, sono la sua “allenatrice” di strategie cognitive. Abbiamo lavorato insieme per un intero anno, con esercizi che un termine alla moda chiama “brain training”, interrompendoci di tanto in tanto  per condividere emozioni e pensieri. Abbiamo allenato l’attenzione, la memoria, il ragionamento.

Abbiamo affrontato insieme tanti momenti critici e alla fine l’ostacolo più grande ha cominciato ad andarsene, come un fantasma sconfitto: la paura di Gianluca di non essere intelligente, di essere anzi proprio un cretino. Un fantasma che lo faceva rinunciare di fronte alla minima difficoltà, gli faceva sbattere il pugno sul tavolo, lo precipitava in risate nervose e interminabili. Ridendo marcava la sua estraneità da tutto e da tutti.  Gianluca ha incontrato  altri ragazzi con problemi in parte simili ai suoi e dopo molti mesi ha cominciato a dirsi che anche lui è capace di pensare,  risolvere situazioni difficili, avere idee di cui discutere con i compagni dell’istituto professionale. Che lui abbia un valore, che non ci sia niente di cui vergognarsi, che la sua vita possa essere felice, ancora non ci crede però.

Oggi aspettiamo insieme perché il papà è stato convocato negli uffici di una ASL romana dalla commissione medico-legale che accoglie le richieste per l’applicazione della legge 104, la famosa legge che dà diritto ad un insegnante di sostegno e ad un assegno che viene chiamato “indennità di frequenza”. La famiglia di Gianluca vive con un solo modesto stipendio e l’ indennità di frequenza è un piccolo aiuto che non basterà comunque a coprire le spese per una psicoterapeuta (da quest’anno si occuperà in maniera specifica dell’ansia e della depressione di Gianluca) e per il “training” con me.

Dopo una lunga attesa siamo convocati nella stanza piccola e disadorna dove si è riunita la commissione medico-legale.  Un funzionario medico legge ad alta voce la relazione della ASL di appartenenza di Gianluca:

ritardo mentale medio-lieve, deficit di attenzione e iperattività, disturbo depressivo.

Gianluca non sorride più, scoppia in una delle sue risate interminabili, evita di guardarmi. Precipito anch’io nello sconforto, ecco in pochi minuti distrutto il faticoso lavoro compiuto insieme. Il funzionario non guarda Gianluca, continua a scorrere la relazione, controlla la data, commenta ad alta voce  “non è però un handicap gravissimo”.

A Gianluca nessuna domanda e a me che sono la sua psicologa, nessuna richiesta di chiarimento.

Perché i problemi cognitivi di ragazzi come Gianluca vengono definiti da un’etichetta così umiliante come quella di “ritardo mentale”? Perché con una mano si dà e con l’altra si toglie? Viene data un’assistenza mentre si toglie il rispetto e il diritto alla propria dignità.

Ragazzi come Gianluca  sono in grado di capire che cosa implica un’etichetta come quella di ritardo mentale (o disabilità intellettiva), sanno che vuol dire non essere intelligenti. Potrei portare tante prove dell’intelligenza di Gianluca. E altrettante prove  degli inciampi dei suoi processi cognitivi. Quegli inciampi che potremmo aspettarci dal cervello di un ottantenne intelligente. Ma Gianluca ha sedici anni, e nessuna analisi medica ha mai mostrato un’anomalia. Questo succede a molti ragazzi che ricevono la stessa diagnosi di Gianluca.

Le etichette con cui la legislazione riconosce il diritto all’assistenza diventano “carte d’identità”. E allora le parole andrebbero scelte con maggior cura. Un’etichetta diagnostica entra in un percorso legale di assistenza, nella comunicazione tra neuropsichiatri infantili, psicologi, genitori, insegnanti. E nella comunicazione con la persona stessa  che è in difficoltà, con la sua coscienza, con il suo “sé” in sviluppo.

Scusa Gianluca, a nome di una comunità di operatori professionali che non ha ancora capito quanto possiamo fare male con le parole…

Margherita Orsolini

Professore di Psicologia dello Sviluppo e dell’Educazione
Responsabile del Servizio di consulenza sulle difficoltà d’apprendimento – Dipartimento di Psicologia dei processi di Sviluppo e Socializzazione – Sapienza Università di Roma

P.S. La storia che racconto riguarda un ragazzo e una psicologa che ha lavorato con lui nel servizio di consulenza  di cui sono responsabile

http://www.psicologia1.uniroma1.it/static/didattica/IdDocente_319.shtml

5 risposte su “Quando le parole dell’assistenza fanno male”

che dire? intanto che condivido “con la pancia” quello che scrive margherita… che purtroppo noi psicologi spesso (ma senza generalizzare) risolviamo ingiustizie e chiediamo scusa “per nome e per conto di sanitari leggeri” … il percorso con i pazienti/esseri umani è così delicato e prezioso che basta niente per rovinarlo… e gli psicologi sanno bene quanto il “non sentire” il “non ascoltare” faccia proprio danno… si guarda ma non si vede… si sente ma non si ascolta… come se si sfogliasse una rivista che non interessa….
allora … che dire? …. non c’è proprio niente da dire… ma la speranza è che di psicologi come margherita e come tanti altri… portino avanti questo tipo di lavoro… sotterraneo… silenzioso… ma è proprio sotto terra che i semi diventano alberi… e … che tutti i nostri pazienti possano diventare alberi rigogliosi con radici profonde come ogni essere umano si merita…
riccardo

Grazie per queste parole! Certe volte il nostro lavoro è veramente sotteraneo… Ci sono anche neuropsichiatri infantili, come il collega Ciro Ruggerini, che da anni promuovono un diverso modo di considerare il cosìddetto ritardo mentale. Continuiamo il lavoro delicato e silenzioso, ma cerchiamo anche tutti di parlare di più del nostro lavoro e della qualità che può avere, dei buoni risultati che può produrre.
Gianluca, dopo un anno di lavoro di potenziamento cognitivo (e di supporto emotivo) ha una prestazione nella norma in un test come le Matrici di Raven, che è un test di ragionamento visuo-spaziale. Risulta invece ancora molto in in ritardo nella WISC, perché in questa famosa batteria le prestazioni risentono molto degli apprendimenti (specialmente verbali) e della rapidità (specialmente nei subtest non-verbali). Ma apprendimenti e rapidità non sono sinonimi di intelligenza.

Margherita Orsolini

per mia esperienza personale possono testimoniare che di medici del genere ce ne sono tanti, che considerano i problemi mentali come se fossero malattie del corpo. Non considerano che quando si dà una comunicazione di un problema psichico, c’è sempre il fantasma della colpa, dello stigma, del sentirsi diversi. Apprendere di avere un problema psichico non è come apprendere di avere un nervo infiammato, ma alcuni medici proprio non lo capiscono.
Nulla da rimproverare, per carità, loro non hanno studiato psicologia (ah no mi correggo…ci sono i 2 esami all’università) e quindi non è nel loro bagaglio culturale….perciò sarebbe bello che ci fosse uno psicologo di base e uno psicologo scolastico….come in tutti i Paesi dell’Europa.

Buongiorno. Mi chiedo se fosse proprio necessario che il ragazzo(minorenne) fosse presente alla lettura della diagnosi e della sentenza di assegnazione. Non era possibile tutelarlo e “aspettare” lavorando in un ottica di sostegno psicoterapeutico all’accettazione di questi suoi aspetti in un momento in cui fosse più maturo per accoglierli? Non sono molto preparata in materia, è la Legge che prevede anche la presenza del paziente in questione, nonostante sia un Minore? A mio parere, sarebbe bene evitare questi incontri “istituzionali” che in un primo momento dovrebbero riguardare solamente i genitori del ragazzo e gli adulti che se ne occupano.

Ho aiutato un bambino con vero ritardo mentale medio a uscire dalla disperazione più nera. Gli ho dimostrato che anche lui poteva capire e fare molte cose come i suoi compagni.
Il bambino ha iniziato a essere un po’ meno disperato e a voler socializzare con la sua classe.
I genitori hanno visto il cambiamento in positivo e mi hanno ringraziata, ma alcuni insegnanti hanno iniziato a dire che si comportava peggio…solo perché iniziava a pretendere di essere integrato nella classe.
Certo, quando mi ha detto che vedeva la Madonna…ho sperato solo che nessuno lo portasse da uno psichiatra. Mancava solo una diagnosi di schizofrenia.
Ho interpretato come una richiesta d’aiuto queste visioni, anche a causa del contesto in cui si presentavano, quando ha ricevuto l’aiuto adeguato le visioni sono svanite e il bambino mi chiedeva il perché.

Conosco anche pazienti psichiatrici che hanno visioni nonostante gli psicofarmaci, per fortuna qualche psicoterapeuta li aiuta a ritrovare l’emozione e il senso di queste visioni.

Che dire infine del disturbo ADHD? A me sembra normale che un ragazzino possa essere nervoso e disattento in classe, specie se ha qualche preoccupazione.

L’Ordine degli Psicologi dovrebbe promuovere una cultura psicologica di fronte a casi come quello dell’articolo.

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